Era difficile stare lì,
davanti a quella cassetta appesa alla colonna, davanti alla stazione. Che materiale
era? Ghisa, forse. La gente mi passava attorno, l’altoparlante annunciava i
treni, i ritardi e anche i treni dei desideri. C’ero io , davanti alla cassetta
postale, focalizzavo solo il rosso della ghisa e intorno a me uno sfondo
futurista come da elevata esposizione del rullino: strisce colorate, gialle,
luminose…mi ritornava giustamente alla memoria una fotografia trovata per
terra, giunta a me da lontano, in una busta, proprio nello stesso modo in cui
io mi accingevo a comunicare in quel momento.
Busta in mano. Controllo ancora
una volta il francobollo. “Cristo, ma quando è stata l’ultima volta che ho
affrancato una lettera vera?”
La busta è bianca, di
quelle corte, peccato: avrei preferito averne una di quelle lunghe, per poter
piegare i fogli in tre parti per il verso della lunghezza, ma tant’è, avevo
quella in casa, e allora ho piegato i fogli prima in due, e poi in quattro. La soppeso,
cercando di capire se pesi più o meno dei venti grammi per cui, se li
superasse, mi tornerebbe indietro non avendo pagato il supplemento. La giro e la rigiro tra le mani, controllo l’ortografia, sembra leggibile, anche il mittente è
chiaro. Sto lì incerta, non so in quale delle due feritoie inserirla, perché
hanno cancellato le scritte, una è per la città e l’altra per tutte le altre
destinazioni, questo me lo ricordo, però non mi ricordo se devo metterla a
destra o a sinistra. Sono incerta e quando faccio per lasciarla, la controllo
ancora una volta, cerco di convincermi che arriverà da qualche parte, cioè, che
arriverà alla destinazione prescelta, ma mi si stringe il cuore alla sensazione
di stare per affidare le mie parole ad un buco nero, da quale non so se
usciranno mai e nemmeno quando saranno ricevute. Se, saranno ricevute. Cerco di
sbirciare nell’oscurità all’interno della cassetta, ma non vedo niente. Magari la
mia è l’unica lettera inviata quel giorno. C’è scritto: “ritiro, dal lunedì al
venerdì, ore 12”
Sono le 11:45, basta. Lascio
cadere la busta nella fessura a destra. Appena lasciata il desiderio istintivo di
riprenderla è forte. Ma è impossibile. Anche l’irreversibilità del gesto mi
lascia sconcertata. Vorrei gridare e chiedere aiuto attorno a me, “aiutatemi,
voglio riprendermi la lettera, la voglio toccare, la voglio toccare ancora una
volta, aiutatemi a rompere, a fracassare questa cassetta di ghisa rossa”.
E invece, devo dirle addio
per sempre. Mi allontano, me ne vado mentre si sfoca dentro me il ricordo della
consistenza della carta, e anche quello che contiene, e tutto quello che mi
porto dietro io, invece, è un’infinita malinconia, il desiderio di restare,
qualche grammo di tristezza, che passerà, come sempre. Come tutto.
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