martedì 12 ottobre 2010

L'IMPORTANZA DELLA PUNTEGGIATURA

certo ci vuole un bel po’ di coraggio a sognare ancora mano nella mano o forse no più che toccarsi le mani si sfidano a duello in un gioco di tensione spinta al limite di sopportazione tu cadi e ti sanguina la fronte e il labbro e io ti lecco le ferite ma non basta e allora lei mi ha detto che serve la liquirizia perché sono ferite d’amore quando i sogni sono più logici della realtà onestamente non me ne frega un cazzo

mercoledì 6 ottobre 2010

Non ho tempo da perdere in stupide battaglie di modi

Prima faceva freddo e pioveva, alle sette di mattina dico. Assolutamente nessuna voglia di alzarmi. Piove, lava, pulisce porta via… e io dormivo. Appena il cielo ha cominciato a schiarirsi mi sono alzata dicendo “oh cazzo le otto e mezza ma cristo santo perché sempre così tardi”…Poi mi sono largamente giustificata dicendomi che era giusto, essendo andata a letto a mezzanotte e mezza ci stava preciso: avevo dormito le mie 8 ore buone.
E ho anche sognato qualcosa che non ricordo. Vi basti sapere che era bello delicato e pungente al tempo stesso. In bianco e nero. Il bacio di Doisneau che Nicola casualmente ma azzecatamente mi ha ricordato c’entra in qualche modo. E l’amore e tutto il resto. Insomma un bel casino. Svegliarsi con una cosa sola in testa. I pensieri di due giornate una di seguito all’altra vissute sul bilico di una bicicletta da circo inesistente sui sampietrini di una Roma ovviamente sempre troppo splendida per capire se sei innamorato tu o se è lei che ti innamora ogni volta. Una marmellata di pensieri in testa. E niente. Giravo a vuoto per la stanza. Girovagavo nell’anima della rete (dicesi “web” per persone “argute”).
E poi rompiamo i libri. Scombiniamo parole e farfugliamo aforismi ma non stiamo costruendo niente. Stiamo soltanto vagando. In attesa. Attendiamo che succeda qualcosa e quando succede non ci basta ancora e ne vogliamo di più, avidi e ingordi come le radici nodose delle piante più rompicoglioni che possono esistere, come quelle che si infiltrano pure tra mattonelle e malta e le scollano e rovinano un terrazzo già provato da decenni di vita in affitto, e poi affitto di studenti, quindi ancora peggio per le mattonelle. Però la casetta è ancora tanto graziosa e quel terrazzo ne ha viste di belle serate e ne vedrà delle altre, ne sono sicura. Intanto l’altro giorno ha rivisto dei baci. E questo è un gran bel passo avanti. C’era forse anche troppo romanticismo che non si può spiegare a parole ché rischia di essere miele senza senso per chi non ci sta dentro.
Insomma “il libro dell’inquietudine” di Pessoa. Roba come i sentimentalismi e la frasetta carina che cercavo prima e che mi è costata lo strappo di mezza pagina (si Flavio mi sa che c’hai ragione i libri della Feltrinelli non valgono granché, ma tu guarda se mi si devono strappare le pagine di un libro appena nuovo cristo)
 “…e se dobbiamo dare amore per sentimentalismo, è indifferente se lo riserviamo alle piccole sembianze del calamaio o alla grande indifferenza delle stelle”
Grande inquietudine, santa…oddio non so quanto sia santa…ma poi in fondo che vuol dire non lo sa nemmeno lui…la religione, la fede bah…non sono stronzate, non intendo dire questo, ma la fede più grande è quella della vita e me ne fotto della morte, perciò dico sempre che dobbiamo viverci accanto, ci dobbiamo sentire stretti e dobbiamo toccarci e sentirci e avvicinarci e addomesticarci l’un l’altro, ogni essere umano sulla terra, per questi pochi attimi di infinità che non si sa bene perché stiamo vivendo adesso. Ricordatene domani chi sarà il nuovo messia: una donna. Magari.
Ma a me mi basta stare sdraiata su un ponticello di legno in mezzo a qualche antica rovina. C’è l’immortalità e la fugacità insieme. E se poi c’è un braccio su cui appoggiarsi tanto meglio, contare le stelle sarà più facile. Ma non pensare che io abbia uno smisurato bisogno di te. Contegno ci vuole. Fai piano se entri nei miei giorni, in punta di piedi e passi felpati ché non ho tempo da perdere in stupide battaglie di modi. Se è giusto, calzerà a pennello. Le scarpe di pelle possono essere messe in forma dal calzolaio. Le storie o ti vanno giuste o è meglio lasciar perdere. Ché poi ci sono giorni che sei tu a subire “dilatazioni umorali” (vedi le dilatazioni termiche simili che costituiscono il “miracolo” del calcestruzzo armato…dio mio santo che strazio… che paragoni assurdi…)
Adesso comunque mi sono sbloccata. Mi si è sbloccata la penna. O la tastiera. Punti di vista temporalmente separati. Nell’ottocento avrei scritto la penna. Oggi forse è più corretto dire la tastiera. Ed ecco che potrei anche indefinitamente parlare di concetti profondi. Ed ecco che potrei anche tornare a studiare. Dopo tutto può darsi che in minima parte io abbia effettivamente bisogno di te.

venerdì 1 ottobre 2010

non dico mai cose serie, ma nemmeno le scrivo

Mi tocchi nel profondo, e mi rendi fiera di questo corpo e di questa mente. Arrivarci così, con una semplicità trovata per caso. Moti dell’animo: non si esprimono in nient’altro che in impulsi nervosi, piccoli, leggeri spasmi di tremori incontrollabili. E poi niente, va bhè. Non riesco a pensare ad altro che negazioni. Se non fosse successo mai. Perché conoscerti è il più grande sbaglio e la più grande grazia. E conoscerti ogni giorno, senza riconoscere i petali del girasole che ho fatto appassire, o il fiore che non mi hai mai regalato, e le bugie che mi hai promesso, non è affatto quello che voglio. Ma tra il bagno e la stanza si susseguono le risate dei nostri corpi intrecciati, e ogni maledetta superficie è fondamentale nell’esercizio di ricordarmi di dimenticarti. Però lo sai che io non dico mai per sbaglio cose serie, e parlo solo di sciocchezze, il sorriso sulla mia faccia è la maschera migliore che potevo inventarmi. E dalla sanità passo alla malattia, con la stessa logica con cui si passa da una storia all’altra. Affioro in superficie di tanto in tanto per ricordarmi di essere unica e sola, di bastare a me stessa, ma mi sfugge il concetto. Lo perdo tra le dita, poeticamente affusolate, tra voci indecise e calde, sussurrate piano all’orecchio, che cantano musiche per farmi innamorare. E se ho paura proteggimi, se ho freddo riscaldami. E se non ti trovo, mostrami dove ti nascondi, tutte le volte che ti ferisco. Non serve la psicologia per capire che si sta meglio senza facebook, che l’acqua per il bagno è meglio calda, che le fragole a letto macchiano il cuscino, che ti devo ringraziare, e che se ci siamo persi, ci sarà qualche ragione. Ma ritrovare gli occhiali non è mai stato semplice, urtare scaffali e comodini ogni mattina, per la fretta di scappare sperando di non aver dimenticato niente, chiamare l’ascensore con le scarpe slacciate, baciarsi in ascensore e allacciarsi le scarpe, poi truccarsi in macchina sotto il tuo sorriso, sperando di essere stata bella fino a quel momento per te, e non dopo, quando preparandomi al mondo non sono più io, senza le mie occhiaie e quella faccia pallida, che dedico solo a te, quando siamo sicuri di amarci. È strano l’odore dell’imperfezione di un legame. Il gioco delle parti, la musica che ci accompagna nel sonno. Poi tra te e me, c’è tutto il vuoto spazio di un’ora di autobus, con le sue voci incostanti, gli aliti ubriachi e le donne in carriera, e c’è tutta Roma, e poi c’è il treno che mi separa da casa, l’aereo che ci porterà a Parigi, sempre che tu non sia legato ad altri ricordi. Ma dilungarsi, tra i fogli e il computer, con accanto la cena, consumata mentre la cucina diventava momentaneamente un laboratorio di vernice, e volere un controllo assoluto, un corpo perfetto,  e  un’anima perfetta, non mi sembra poi così stupido. Stupido è non chiamarci amore quando ci scappa di bocca, e trattenerlo come si trattiene il vomito prima di arrivare al bordo del cesso, stupido è pensare che ci sia un momento giusto, una frase giusta, una persona giusta. Stupido è pensare, in certi casi.